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Lezioni per il futuro:
l'Italia non è il malato d'Europa

di Marco Fortis

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11 giugno 2009

«È come se gli americani e i britannici avessero vissuto per un decennio in un paradiso di follia risparmiando meno di quanto avrebbero dovuto perché pensavano che i prezzi delle case e delle azioni sarebbero rimasti alti per sempre». Questa frase, che bene sintetizza una delle cause più profonde che hanno originato la crisi mondiale, non è di Carlo Azeglio Ciampi, che pure fu tra i primi a scrivere in un editoriale del 17 settembre scorso sul Messaggero che la politica espansiva americana aveva «drogato il mercato» e «trasferito al mondo intero una sensazione forte e non sana di euforia». Né si tratta di una battuta di Giulio Tremonti tratta dal suo libro premonitore La paura e la speranza o di una riflessione di Romano Prodi, oggi particolarmente impegnato a studiare le asimmetrie e gli squilibri della globalizzazione e della tecno-finanza non regolata. Né è un passaggio del volume della Fondazione Astrid a cura di Giuliano Amato, Governare l'economia globale. Nella crisi e oltre la crisi (aprile 2009). È invece un caustico giudizio dell'Economist (6 dicembre 2008).

Lo stesso Economist che nell'aprile 2006 però celebrava in modo inconsueto la Goldman Sachs, dedicandole addirittura una copertina e descrivendola come «una compagnia formidabile per il suo nuovo approccio al rischio». Lo stesso Economist che nel maggio 2005 metteva invece sulla copertina della sua edizione europea l'Italia sostenuta da tante piccole stampelle, descrivendo il nostro Paese come «the real sick man of Europe», a causa della sua bassa crescita economica dovuta a un'eccessiva vocazione manifatturiera, alla concorrenza asiatica e all'impossibilità delle nostre imprese di ricorrere, come in passato, alla svalutazione della lira.

Incoerenze e contraddizioni dunque non sono mancate. Tanto è vero che sempre l'Economist già nel giugno 2005 aveva sottolineato come l'impennata dei prezzi delle case in corso a livello mondiale fosse «la bolla più grande della storia», evidenziando come l'incremento del valore delle proprietà immobiliari nei paesi avanzati negli ultimi 5 anni fosse stato pari al 100% del Pil complessivo degli stessi (16 giugno 2005). Il che dimostra che alcune riviste, così come vari economisti, avevano intuito singoli pezzi del problema ma non le sue potenziali interconnessioni e dimensioni globali, che alla fine hanno portato alla più grave crisi economica dai tempi del 1929.
È indubbio che nell'ultimo decennio sia stata celebrata come "virtuosa" un tipo di crescita alquanto precaria e non sostenibile nel tempo. Basata, nel mondo avanzato, sul debito privato e sulla bolla immobiliare col sostegno dei risparmi dei paesi emergenti, come ha bene sottolineato su queste colonne Barry Eichengreen. Sicché i paesi "virtuosi" erano quelli il cui Pil cresceva di più a prescindere dal propellente con cui tale crescita veniva alimentata. Oggi è invece chiaro che quei Paesi, cioè Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Islanda ecc., sono finiti in un bel pasticcio e hanno originato con il loro indebitamento privato e i loro squilibri interni ed esteri la crisi mondiale stessa. Il debito delle famiglie americane e inglesi è oggi pari a circa il 100% dei Pil dei rispettivi paesi. In Irlanda ogni singolo abitante ha in media oltre 32mila euro di debiti soltanto per i mutui per la casa, in Islanda oltre 56mila.

Oggi i "real sick men of Europe", che abbisognerebbero di stampelle molto più robuste di quelle che nel 2005 l'Economist dedicò all'Italia, sono: la Gran Bretagna (con un deficit commerciale estero gigantesco, due delle sue maggiori banche nazionalizzate, un deficit/Pil previsto dalla Commissione europea al 13,8% l'anno prossimo e un calo dei consumi delle famiglie nel 2009 che sarà il doppio di quello italiano); l'Irlanda (con un calo del Pil nel 2009 del 9%, un sistema bancario anch'esso salvato dallo Stato e le finanze pubbliche dissestate); la Spagna (con un tasso di disoccupazione lanciato senza freni verso il 20% e una bilancia commerciale negativa pesante come quella britannica). Mentre la crisi finanziaria ha letteralmente stravolto i sistemi bancari dell'Olanda e del Belgio.

Quanto all'Italia, poiché in questi ultimi anni due soli parametri principali sono stati superficialmente utilizzati per misurare lo stato di salute delle economie, cioè la crescita del Pil e il livello del debito pubblico, il nostro paese non poteva certo ben figurare nelle classifiche internazionali tanto in voga. Eppure già una quindicina di anni fa Giorgio Fuà, nel suo lavoro Crescita economica, ci aveva messi in guardia dall'«insidia delle cifre», stimolando gli economisti a cercare indicatori più completi del Pil per quantificare lo sviluppo dei moderni sistemi economici.

L'Italia è entrata in questa crisi mondiale, che non ha in alcun modo contribuito a causare, con famiglie poco indebitate e banche più solide di quelle degli altri paesi. Ma anche con una forte economia non finanziaria, essendo l'unica nazione a collocarsi contemporaneamente al secondo posto in Europa in tutti i tre settori dell'economia "reale", industria, agricoltura e turismo, come evidenziato anche dall'ultimo rapporto congiunto di Symbola e Fondazione Edison.

  CONTINUA ...»

11 giugno 2009
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